lunedì 2 dicembre 2019

Interdittiva antimafia: il Consiglio di Stato fa il punto

Rispetto dei principi di tassatività per bilanciare interesse al contrasto delle mafie e diritti di libertà economica (Cons. Stato, sentenza n. 6105/2019)

Il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale nel bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie.
La Sezione ha ribadito che il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie.
La libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza però anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo la legge del potere criminale sul potere democratico – garantito e, insieme, incarnato dalla legge dello Stato – per perseguire fini illeciti e conseguire illeciti profitti.
E' quanto stabilito dal Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza 5 settembre 2019, n. 6105 

Aiuto al suicidio: legittimo se ancorato a particolari cautele

Le motivazioni della Corte Costituzionale sul "caso Cappato" (sentenza n. 242/2019)


La Corte Costituzionale, con sentenza del 22 novembre 2019, n. 242 (testo in calce), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione, agevoli l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Con ordinanza del 14 febbraio 2018 la Corte di Assise di Milano sollevava questioni di legittimità costituzionale dell'art. 580 c.p., che prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio “nella parte in cui prevede che l'aiuto al suicidio sia punibile anche se la persona che ha inteso porre fine alla sua vita (a) è affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in via a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Secondo il giudice rimettente la disposizione violerebbe innanzitutto gli artt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione, i quali, sancendo il principio personalistico, che pone l'uomo e non lo Stato, al centro della vita sociale, e quello di inviolabilità della libertà personale, riconoscerebbero la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba avere luogo.
La norma si porrebbe in contrasto anche con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della CEDU i quali, nel salvaguardare, rispettivamente, il diritto alla vita ed il diritto al rispetto della vita privata, comporterebbero, in base all'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo, che l'individuo abbia il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita possa finire e che l'intervento repressivo degli Stati in questo campo possa avere soltanto la finalità di evitare rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili.
La Corte milanese contesta, in secondo luogo, il trattamento sanzionatorio riservato alle condotte in questione, censurando l'art. 580 c.p., nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione all'esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, ponendosi in contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
I giudici delle leggi, già con ordinanza n. 207 del 2018 aveva formulato alcuni rilievi che sono stati confermati nella pronuncia in oggetto. Preliminarmente, la Corte ha ritenuto che l'incriminazione di aiuto al suicidio non si ponga in contrasto con la Costituzione; l'art. 2 Cost., infatti, sancisce il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo e non quello di riconoscere all'individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.
Al tempo stesso non è possibile neppure desumere la generale inoffensività dell'aiuto al suicidio da un generico diritto all'autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita. La ratio della norma, infatti, è da rinvenire nella tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l'ordinamento penale intende proteggere da una estrema scelta come quella del suicidio.
La questione cambia, però, nel caso in cui l'aspirante suicida si identifichi in una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
In tali casi, l'assistenza di terzi nel porre fine alla vita può presentarsi al malato come l'unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all'art. 32, secondo comma, Cost.
La Legge n. 219 del 2017 riconosce ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione; diritto inquadrato nel contesto della relazione di cura e fiducia tra paziente e medico, medico che è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo.
La legislazione in vigore non consente al medico di mettere a disposizione del paziente che versi nelle condizioni di cui sopra trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Di conseguenza, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care.
La conclusione è che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli art. 2, 3 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli, in ultima analisi, un'unica modalità per congedarsi dalla vita.
Appare evidente che, in assenza di una specifica disciplina in materia, qualsiasi soggetto, anche non esercente una professione medica, potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sulla effettiva sussistenza della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta espressa e dell'irreversibilità della patologia di cui sono affetti.
Occorre, quindi, adottare opportune cautele affinché l'opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare in breve tempo la morte del paziente, non comporti il rischio di una prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua.
Tali cautele sono contenute all'interno dell'art. 1, comma 5, della Legge n. 219 del 2017, il quale introduce una procedura diretta proprio alla verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l'aiuto al suicidio. La manifestazione di volontà deve essere acquisita nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, e documentata in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o attraverso dispositivi che consentano di comunicare, per poi essere inserta all'interno di una cartella clinica, fermo restando la possibilità per il paziente di modificare le proprie volontà.
Il medico deve, inoltre, prospettare al paziente le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative, promuovendo ogni azione di sostegno al medesimo paziente, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.
Infine, la verifica delle condizioni che rendono legittimo l'aiuto al suicidio deve restare affidata a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A queste ultime spetta anche la verifica delle modalità di esecuzione che debbono essere tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.
Concludono i giudici affermando che la delicatezza dei valori in gioco richiede anche l'intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, che possa garantire la tutela di situazioni di particolare vulnerabilità, ovvero il comitato etico territorialmente competente, investito di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali e all'uso di dispositivi medici.

Medico opera d'urgenza senza consenso informato? Non è responsabile

Il consenso al trattamento medico deve essere sempre espresso, salvo che ricorra uno stato di imminente necessità (Cassazione, sentenza n. 28814/2019)

Non è responsabile il medico che opera d’urgenza senza il consenso informato. Prevale la scelta di ridurre al minimo il rischio della vita rispetto alla probabilità della negazione del consenso.
Questo è quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione Civile, sezione III civile, con la sentenza 8 novembre 2019, n. 28814 

Leasing traslativo: quale disciplina in caso di risoluzione?

L'art.1526 sulla vendita con riserva di proprietà si applica solo alla risoluzione per inadempimento, non a quella consensuale (Cassazione, sentenza n. 27999/2019)

La norma che prevede il ripristino delle originarie posizioni dei contraenti in caso di risoluzione del contratto non trova applicazione nell’ipotesi di scioglimento consensuale. 
Al contratto di leasing traslativo si applica, in via analogica, la disciplina della vendita con riserva di proprietà.
Trova quindi applicazione anche l’art. 1526 c.c. ma solo in caso di risoluzione per inadempimento dovuta a colpa dell’utilizzatore.
Se invece il contratto di leasing si scioglie per mutuo consenso manca il presupposto essenziale di applicazione della norma (l’inadempimento per colpa di una delle parti), dovendosi ritenere che queste ultime abbiano ritenuto confacente ai propri interessi non dare ulteriore esecuzione al rapporto obbligatorio.
Il rapporto pregresso viene quindi ad estinguersi consensualmente con efficacia "ex nunc", non operando, in assenza di una diversa esplicita volontà delle parti, la disciplina legale degli artt. 1458 e 1526 c.c.
Questo il principio statuito dalla terza sezione civile della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 27999 del 31 ottobre 2019 

venerdì 29 novembre 2019

Ricorso al prefetto per la contestazione di una multa

Ricevuta la contestazione immediata o la notifica differita di un verbale di accertamento di violazione al codice della strada, l’interessato, in alternativa al pagamento in misura ridotta della sanzione, può proporre ricorso al Prefetto.

    

Nozione e normativa di riferimento

Il ricorso al Prefetto, disciplinato dagli artt. 203 e 204 C.d.S., costituisce un’ipotesi di ricorso gerarchico (c.d. improprio) avverso il verbale, mediante il quale si attiva una forma di tutela in sede amministrativa.
Può presentare ricorso esclusivamente il soggetto destinatario dell’obbligo al pagamento della sanzione, sia in qualità di autore della violazione, sia in qualità di obbligato in solido, che abbia interesse all’annullamento del verbale.

Termini e competenza

Il ricorso deve essere presentato nel termine perentorio di 60 giorni, decorrente dalla data di contestazione o notifica della violazione. Organo competente è il Prefetto del luogo della commessa violazione.
Il diritto a ricorrere si estingue per acquiescenza del trasgressore. Questi, infatti, può dimostrare di accettare il provvedimento della P.A. con un comportamento positivo: mediante il pagamento in misura ridotta - la qual cosa comporta l’estinzione del procedimento amministrativo, con conseguente inammissibilità del ricorso - o inerte: il decorso del termine per proporre ricorso, che comporta il consolidarsi del verbale in titolo esecutivo per una somma pari alla metà del massimo della sanzione edittale.

Contenuto del ricorso

Il ricorso deve essere redatto per iscritto su carta libera e contenere:
  • l’intestazione, con indicazione della competente autorità prefettizia cui è diretto;
  • l’epigrafe, con indicazione del nome, cognome, residenza e domicilio del ricorrente;
  • gli estremi del verbale impugnato, con la data della sua contestazione o notificazione;
  • i motivi per i quali si propone il ricorso e cioè i vizi di legittimità o di merito su cui si fonda;
  • le conclusioni;
  • la sottoscrizione del ricorrente.
Al ricorso possono essere allegati documenti probatori (ricevute di pagamento, copia di autorizzazioni, testimonianze scritte, ecc.). Il ricorrente ha anche facoltà di fare istanza di audizione personale.

Modalità di presentazione

Il ricorso può essere presentato:
  • personalmente mediante deposito all’Ufficio o Comando da cui dipende l’agente accertatore, che ne rilascia ricevuta;
  • a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, la cui data di presentazione è quella di spedizione (art. 388 Reg.), indirizzata all’Ufficio o Comando da cui dipende l’agente accertatore, oppure direttamente al Prefetto. In tale ultimo caso, l’Autorità Amministrativa dovrà trasmettere il carteggio, entro 30 giorni dalla ricezione, all’organo accertatore per la necessaria istruttoria;
  • a mezzo posta elettronica certificata (P.E.C.), ai sensi dall'art. 48 D.Lgs. 82/2005, sottoscritta con firma digitale autenticata dalla persona legittimata o, in alternativa, recante in allegato, in formato pdf, il testo del gravame firmato (cfr. Ministero dell’Interno, circolare n. 17166, dell’11/11/2014).
Non occorre il patrocinio di un avvocato.

Gratuito patrocinio, prescrizione breve non applicabile

Per la Cassazione è incompatibile con le regole di contabilità pubblica che impongono l'emissione di un mandato di pagamento (ordinanza 29543/2019)

Pedaggio autostradale: esenzione anche per l'associazione no profit

Il termine "soccorso" non va riferito esclusivamente al carattere dell'urgenza ma va esteso anche al trasporto di malati non in emergenza (Cass. n. 28019/2019)

Manovra 2020: un vero assalto ai conti correnti?

Il probabile riflesso costituzionale di una eventuale norma che non considera l’impatto con i diritti umani europei

Una maggiore spesa pubblica implica, di riflesso, un maggior prelievo tributario che, in tempi di profonda crisi economica, proprio strategica non è.
Di contro, eliminare diversi passaggi del procedimento di accertamento e riscossione tributaria (concentrandoli a più non posso) non farà che svilire e via via annullare il rapporto di leale collaborazione tra contribuente e burocrazia.
Nella Costituzione Italiana possiamo ricondurre il tutto al rapporto di fedeltà (art. 54); quest’ultimo  strettamente legato al principio di effettiva capacità contributiva (art. 53) nonché all’imparzialità della Pubblica Amministrazione (art. 97).
Questa prospettazione delle cose non può che essere imprescindibilmente afferente al tipo di scelte di politica economico-finanziaria del legislatore, le quali dovrebbero essere volte a garantire la c.d. “sostenibilità del debito pubblico”; quest’ultimo da tempo, ormai, alimentato e nutrito di scarso virtuosismo normativo fiscale.
Ragionando al presente, ma sempre ipoteticamente parlando, non è scritto su alcun atto neppure di radice legislativa che “pagando tutti puntualmente” le tasse (od anche dicendo “pagando tutti le tasse”), ciò solo consenta di abbassare la pressione fiscale con certezza di posta a bilancio anno per anno (come diceva qualche settimana fa la Dott.ssa Sileoni dell’Istituto Bruno Leoni ospite della trasmissione “Non è l’arena”).
L’assenza di una norma “bloccante” e “rassicurante” nel nostro ordinamento, tesa a stoppare la crescita della spesa pubblica e la correlata imposizione fiscale, è anche una delle ragioni per cui la politica in quanto tale rimane inerme ed incapace di fronte al potere discrezionale dell’apparato burocratico al quale ultimo, il più delle volte, il legislatore si affida per regolamentare questioni che le leggi nazionali sono inidonee a disciplinare con padronanza (vedasi gli innumerevoli decreti ministeriali esistenti).
La (non) scelta politica ha sempre un chiaro e tangibile effetto soprattutto quando si tratta di un campo delicato come quello fiscale.
La “Manovra di bilancio” che il Governo ha proposto in discussione al Parlamento, con disegno di legge a firma del Ministro dell’Economia Gualtieri, pare non tener conto proprio della questione socio-produttiva dell’Italia come sistema.
È una questione di visione del paese o di paese invisibile?
Eppure il gioco delle parti è semplice.
Se i privati non producono, non assumono, non creano reddito, non spendono, non c’è valore aggiunto, non c’è velocità di scambio, ecc.; insomma una componente del gioco del tutto variabile (atteso il rischio d’impresa), ma che al tempo stesso risulta l’unica certezza per rendere dignitosa la parola “contribuente”.
Una buona dose di colpa ce l’ha sicuramente la disarmonia tributaria che si è creata in tutti gli ultimi quarant’anni della nostra Repubblica.
È un caso che nei primi sei mesi del 2019 circa 6.500 attività artigiane abbiano chiuso?
Il dato non è confortante, sotto tanti aspetti, anche per altri settori produttivi.
Certo è che governare un paese come l’Italia non è facile affatto.
Perciò occorre fare molta attenzione ad una questione abbastanza delicata.
Ci si riferisce al rapporto tributario tra cittadino e pubblica amministrazione con riguardo, nella fattispecie, agli Enti Locali.
L’art. 96 del disegno di legge proposto dal Min. Gualtieri, battezzato dalla cronaca nazionale come la norma di “assalto ai conti correnti” (nel caso non si pagassero puntualmente imposte locali, ad esempio, come IMU e TARI), metterebbe gli Enti Locali in una condizione di assoluto strapotere rispetto ai contribuenti; quest’ultimi con tutta evidenza rimarrebbero spogliati delle garanzie minime di informazione effettiva, sia preventiva che postuma, rispetto all’accertamento d’imposta.
Eppure la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea con l’art. 41, nel prevedere il sacrosanto principio di una buona ed imparziale attività amministrativa, riconosce ai cittadini il diritto di essere “ascoltati prima” che l’amministrazione adotti un provvedimento individuale che rechi pregiudizio.

Cassa Forense: reddito superato per un solo anno non comporta iscrizione d’ufficio

Nell’ipotesi in cui un avvocato non svolga la professione con continuità e soltanto per un anno oltrepassi il reddito minimo, non scatta l’iscrizione d’ufficio alla Cassa Forense.
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28449 depositata il 5 novembre 2019

lunedì 25 novembre 2019

Assicurazione paga oltre il massimale se non ne prova esistenza e misura

Cassazione, ordinanza n. 26813/2019: a nulla rileva che al momento dell'introduzione del giudizio quel massimale non fosse esaurito

Il massimale rappresenta un elemento limitativo dell'obbligazione indennitaria dell'assicuratore, pertanto, grava su di lui l'onere di provarne l'esistenza e la misura.
Nell’assicurazione sulla responsabilità civile, l'assicuratore, che intenda far valere in giudizio i limiti quantitativi contrattualmente fissati alla propria obbligazione, ha l'onere di allegare prima, e provare poi, l'esistenza del patto di massimale e la misura di questo, a nulla rilevando che al momento dell'introduzione del giudizio quel massimale non fosse esaurito.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza 21 ottobre 2019, n. 26813

Associazioni e società tra avvocati: futuro della professione forense?

La Legge 247/2012 (artt. 4 e 4-bis) ne disciplina l'esercizio in forma associata

Stante l’annosa questione attinente all’esclusione dei liberi professionisti, in quanto tali, dall’ambito dei soggetti qualificabili come imprenditori alla luce dell’art. 2238 c.c., decisione di principio del legislatore manifestamente contrastante col dato fattuale che attesta come i requisiti propri dell’attività di impresa ex art. 2082 c.c. spesso ricorrano ugualmente anche nell’ambito dell’esercizio delle attività intellettuali, tra cui quella forense, sin dalla fine degli anni ’30 la formazione di società tra avvocati per l’esercizio della professione fu proibita, ma fu concessa la possibilità di costituzione di associazioni tra avvocati (purché con l’obbligo di adoperare esclusivamente la dizione di “studio legale”, seguita da nome e cognome, nonché dal titolo professionale dei singoli associati, come previsto dalla legge n. 1815/1939).
Per quanto riguarda le associazioni, oggi queste sono disciplinate dall’art. 4 della Legge n. 247/2012 (Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense). Qui si prevede come gli avvocati, oltre che singolarmente, possono svolgere la professione anche in forma associativa, con altri avvocati, o con altri professionisti in caso di associazioni multidisciplinari. L'incarico è in ogni caso conferito personalmente all'avvocato e la partecipazione all’associazione non può pregiudicare in alcun modo l'autonomia, la libertà e l'indipendenza intellettuale o di giudizio del professionista nello svolgimento dell'incarico: l’eventuale previsione di patti contrari è sanzionata con la nullità. L'avvocato può, inoltre, essere membro di più associazioni contemporaneamente: la legge sulla concorrenza (n. 124/2017) ha fatto venir meno il c.d. vincolo di appartenenza che era stabilito dal comma 4 dell'art. 4 della L. n. 247/2017 (Associazioni tra avvocati e multidisciplinari).
La ratio della previsione in esame è quella di garantire al cliente prestazioni di carattere multidisciplinare, nonché quella di creare sinergie tra varie competenze professionali ed ampliare gli spazi di mercato ed azione dell'avvocatura. A completamento di tale schema, l'art. 2 del D.M. 23/2016 ha individuato le categorie di liberi professionisti, iscritti nei rispettivi albi ed elenchi professionali, che possono partecipare alle associazioni tra avvocati: architetti, pianificatori, paesaggisti, conservatori, assistenti sociali, attuari, biologi, chimici, dottori commercialisti ed esperti contabili, geologi, ingegneri, tecnologi alimentari, consulenti del lavoro, medici chirurghi e odontoiatri, medici veterinari, psicologi, spedizionieri doganali, periti agrari e periti agrari laureati, agrotecnici e agrotecnici laureati, periti industriali e periti industriali laureati, geometri e geometri laureati.
Rispetto all’oggetto sociale, le associazioni possono indicarvi le attività ricollegate all’esercizio delle diverse professioni, incluse quelle attinenti allo svolgimento della professione forense ove almeno un associato sia un avvocato. Presso i consigli degli ordini degli avvocati è istituito un elenco delle associazioni; mentre il domicilio professionale degli associati è istituito presso la sede dell’associazione, e questi, sottoposti agli obblighi previdenziali, potranno stipulare con l’associazione contratti di associazione in partecipazione ai sensi degli articoli 2549 e ss. del codice civile.
Per quanto riguarda le vicende estintive dell’associazione, le associazioni che hanno ad oggetto esclusivamente lo svolgimento di attività professionale non sono assoggettate alle procedure fallimentari e concorsuali.
Per quanto attiene al tema delle società tra avvocati, il divieto che ne impediva la costituzione sopravvisse per quasi sessant’anni, fino a quando con la legge n. 366 del 7 agosto 1997, tale divieto fu eliminato, anche se soltanto nel 2001, con il D.Lgs. 2 febbraio 2001 n. 96 (emanato al fine di dare attuazione alla direttiva 98/5/CE), il legislatore nazionale consentì effettivamente di costituire società per avvocati al fine di esercitare la professione forense in forma associata: l’art. 16 del citato decreto sanciva espressamente come “l’attività professionale di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio può essere esercitata in forma comune esclusivamente secondo il tipo della società tra professionisti, denominata nel seguito società tra avvocati”, rimandando per quanto non ivi espressamente previsto alle “norme che regolano la società in nome collettivo di cui al capo III del titolo V del libro V del codice civile”.
Così si individuò proprio l’esercizio della professione forense in comune come oggetto esclusivo della società tra avvocati (STA), e fu previsto come potessero esserne soci solamente professionisti muniti del titolo abilitante. Tuttavia, al comma 9 dell’art. 10, è stata inserita una clausola di con cui venivano fatti salvi i modelli societari e le associazioni professionali “già vigenti alla data di entrata in vigore” del decreto in questione. Poco dopo seguiva anche l’abrogazione del generale divieto di esercizio professionale di tipo interdisciplinare in forma societaria nel 2006 con la legge n. 248. È qui che, per la prima volta, si concretizza la possibilità di costituire società multidisciplinari (cioè formate da professionisti con competenze diversificate), seppur con l’emergere di una apparente sovrapposizione di disciplina tra la novella e quanto invece previsto nel 2001, a causa della suddetta clausola di salvaguardia. Da tale quadro normativo vi era da evincere la duplice possibilità di costituire, da un lato, società, anche di capitali, tra soci professionisti e soci non professionisti, e dall’altro, quella di costituire la società tra avvocati (limitatamente a quest’ultimi).
Questa bipartizione è stata successivamente superata dall’introduzione, ad opera dell’art. 1 co. 141 della L. n. 124/2017, dell’articolo 4-bis della 247/2012, rubricato “(Esercizio della professione forense in forma societaria)”.

giovedì 21 novembre 2019

Cartella, notifica nulla se effettuata con PEC non presente in pubblici elenchi

E' quanto stabilito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Perugia con la sentenza 26 agosto 2019, n. 379

La Commissione Tributaria Provinciale di Perugia, con l’interessante sentenza n. 379/19, depositata in data 26 agosto 2019, ha sancito che è “nulla la notifica della cartella esattoriale” dell’Agenzia delle Entrate - Riscossione, laddove provenga “da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nei pubblici registri”.

Immobile è gravato da ipoteca? Mediatore deve informare le parti

Per la Cassazione (ordinanza n. 27482/2019) è onerato da tale obbligo in merito ad ogni circostanza che incide sulla sicurezza dell'affare

La II Sezione Civile della Corte di Cassazione, nell'ordinanza 28 ottobre 2019, n. 27482 (testo in calce), esclude la provvigione al mediatore qualora non abbia informato il promissario acquirente dell’esistenza di un’ipoteca sull’immobile oggetto della trattativa.
Sussiste infatti uno specifico obbligo giuridico, in capo al mediatore, di informare le parti sulle circostanze che incidono sulla sicurezza dell’affare, che siano a sua conoscenza ovvero conoscibili utilizzando la diligenza esigibile da un professionista del settore, e sia quando il mediatore agisca in modo autonomo, sia qualora si sia attivato a seguito di incarico conferito da una delle parti.

Telegramma: prova certa della spedizione fa presumere la ricezione

Ma si tratta pur sempre di presunzione relativa, suscettibile di prova contraria (Cassazione, ordinanza n. 27256/2019)

La produzione in giudizio di un telegramma, anche se non corredato dall’avviso di ricevimento, costituisce prova certa dell’avvenuta spedizione (attestata dall’ufficio postale tramite l’emissione della relativa ricevuta) da cui discende la presunzione che l’atto sia giunto al destinatario e che questi ne abbia avuto conoscenza ai sensi dell’art. 1335 c.c.
Lo ha ribadito la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione con l’ordinanza 24 ottobre 2019, n. 27256 (testo in calce), precisando tuttavia che si tratta di presunzione relativa, superabile mediante prova contraria.

Criterio del tenore di vita escluso anche nell’assegno di separazione

Come nel divorzio, l'assegno assolve a una funzione assistenziale e compensativa (Cassazione, ordinanza n. 26084/2019)


Ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento nella separazione, è priva di rilevanza la richiesta di provare l'alto tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la rilevante consistenza del patrimonio di uno dei coniugi. I criteri utilizzabili sono quello assistenziale e quello compensativo.
La Corte di Cassazione (sez. VI-1) con l’ordinanza del 15 ottobre 2019, n. 26084 (testo in calce) – ha chiarito il concetto di irreversibilità della crisi coniugale ai fini della separazione personale dei coniugi. Con riguardo alla quantificazione del mantenimento, la Corte ha escluso l’utilizzo del criterio del tenore di vita in analogia con l’assegno divorzile.