Le motivazioni della Corte Costituzionale sul "caso Cappato" (sentenza n. 242/2019)
La Corte Costituzionale, con sentenza del 22 novembre 2019, n. 242 (testo in calce), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione, agevoli l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Con ordinanza del 14 febbraio 2018 la Corte di Assise di Milano sollevava questioni di legittimità costituzionale dell'art. 580 c.p., che prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio “nella parte in cui prevede che l'aiuto al suicidio sia punibile anche se la persona che ha inteso porre fine alla sua vita (a) è affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in via a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Secondo il giudice rimettente la disposizione violerebbe innanzitutto gli artt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione, i quali, sancendo il principio personalistico, che pone l'uomo e non lo Stato, al centro della vita sociale, e quello di inviolabilità della libertà personale, riconoscerebbero la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba avere luogo.
La norma si porrebbe in contrasto anche con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della CEDU i quali, nel salvaguardare, rispettivamente, il diritto alla vita ed il diritto al rispetto della vita privata, comporterebbero, in base all'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo, che l'individuo abbia il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita possa finire e che l'intervento repressivo degli Stati in questo campo possa avere soltanto la finalità di evitare rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili.
La Corte milanese contesta, in secondo luogo, il trattamento sanzionatorio riservato alle condotte in questione, censurando l'art. 580 c.p., nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione all'esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, ponendosi in contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
I giudici delle leggi, già con ordinanza n. 207 del 2018 aveva formulato alcuni rilievi che sono stati confermati nella pronuncia in oggetto. Preliminarmente, la Corte ha ritenuto che l'incriminazione di aiuto al suicidio non si ponga in contrasto con la Costituzione; l'art. 2 Cost., infatti, sancisce il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo e non quello di riconoscere all'individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.
Al tempo stesso non è possibile neppure desumere la generale inoffensività dell'aiuto al suicidio da un generico diritto all'autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita. La ratio della norma, infatti, è da rinvenire nella tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l'ordinamento penale intende proteggere da una estrema scelta come quella del suicidio.
La questione cambia, però, nel caso in cui l'aspirante suicida si identifichi in una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
In tali casi, l'assistenza di terzi nel porre fine alla vita può presentarsi al malato come l'unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all'art. 32, secondo comma, Cost.
La Legge n. 219 del 2017 riconosce ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione; diritto inquadrato nel contesto della relazione di cura e fiducia tra paziente e medico, medico che è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo.
La legislazione in vigore non consente al medico di mettere a disposizione del paziente che versi nelle condizioni di cui sopra trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Di conseguenza, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care.
La conclusione è che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli art. 2, 3 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli, in ultima analisi, un'unica modalità per congedarsi dalla vita.
Appare evidente che, in assenza di una specifica disciplina in materia, qualsiasi soggetto, anche non esercente una professione medica, potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sulla effettiva sussistenza della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta espressa e dell'irreversibilità della patologia di cui sono affetti.
Occorre, quindi, adottare opportune cautele affinché l'opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare in breve tempo la morte del paziente, non comporti il rischio di una prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua.
Tali cautele sono contenute all'interno dell'art. 1, comma 5, della
Legge n. 219 del 2017, il quale introduce una procedura diretta proprio alla verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l'aiuto al suicidio. La manifestazione di volontà deve essere acquisita nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, e documentata in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o attraverso dispositivi che consentano di comunicare, per poi essere inserta all'interno di una cartella clinica, fermo restando la possibilità per il paziente di modificare le proprie volontà.
Il medico deve, inoltre, prospettare al paziente le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative, promuovendo ogni azione di sostegno al medesimo paziente, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.
Infine, la verifica delle condizioni che rendono legittimo l'aiuto al suicidio deve restare affidata a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A queste ultime spetta anche la verifica delle modalità di esecuzione che debbono essere tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.
Concludono i giudici affermando che la delicatezza dei valori in gioco richiede anche l'intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, che possa garantire la tutela di situazioni di particolare vulnerabilità, ovvero il comitato etico territorialmente competente, investito di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali e all'uso di dispositivi medici.